Ambiguo Blu riprende un tuo vecchio fumetto, cosa ti ha spinto a riprenderlo in mano e ampliarlo?
Ambiguo Blu nasce come progetto di tesi all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Probabilmente mi ha fatto bene lasciarlo un po’ accantonato appena finiti gli studi, per distaccarmi e concentrarmi su altro. Ritornarci sopra mi ha permesso di rivedere il progetto in modo un po’ più oggettivo ma anche con molta voglia di rimetterci mano.
Il blu e il rosso sono ovunque nel fumetto — come hai scelto di usarli per raccontare le emozioni di Blu?
È abbastanza semplice: mi piace il blu e lavorare con la linea, quindi, invece di una linea nera ho optato per virarla sul blu e utilizzare altre tonalità più o meno chiare per colorare. Il rosso è stato usato come colore di “stacco” proprio per mettere in evidenza scene o dettagli.
I personaggi non hanno nomi “classici”: che significato ha questa scelta per te?
In realtà trovo sempre molto difficile scegliere i nomi per i personaggi e cerco sempre di trovare nomi che non sono associati a persone che conosco o troppo diffusi. Per Blu ho cercato un nome che però può essere inteso anche come soprannome, sempre per rimanere nell’ambiguità. All’inizio volevo scegliere un nome neutro italiano ma sono davvero pochissimi e nessuno mi piaceva.
Il tema dell’identità di genere è un tema di questo racconto e l’hai affrontato senza mai parlarne. Come mai questa scelta?
Volevo parlarne rappresentando il vissuto di un personaggio senza appunto spiegare per filo e per segno terminologia e definizioni. Sarebbe stato un passaggio troppo brusco che avrebbe appiattito e reso banale la storia.
Come hai immaginato il rapporto tra Blu e Nova?
È un’amicizia ma di sicuro non troppo sana. Quelle amicizie un po’ di convenienza, un po’ perché non c’è nessun altro… non la vedo come un’amicizia duratura.
La stanza di Blu è un vero e proprio mondo a parte — come hai pensato di rappresentare il suo caos interiore?
Incasinato. Sommerso di roba utile ma soprattutto inutile perché rotta. Quello che mi fa più effetto sono i resti di cibo ormai avariati; mi sembra sempre di sentirne l’odore. In quella montagna di roba risiede la decisione di Blu di non buttare via niente, di ammucchiare tutto senza distinzione.
I social nel fumetto sembrano un rifugio ma anche un ostacolo. Che ruolo hanno, secondo te, nella solitudine dei ragazzi?
I social possono essere iper-connessione perché si parla con una persona dall’altra parte del mondo ma anche iper-isolamento perché non si parla con il proprio genitore. E sono velocissimi. Credo si possa trovare un rifugio per condividere le proprie passioni e dubbi, trovando gente simile ma non deve diventare l’unico punto di riferimento.
Nonostante il tono malinconico, alla fine si intravede un cambiamento. Che messaggio volevi dare ai lettori?
Che il cambiamento è continuamente in atto. Magari da fuori non si vede ma c’è stato; non se ne percepisce l’intensità ma c’è stato; non si sa in quale direzione
-positiva o negativa- porterà ma c’è stato.
Qualcuno ti ha scritto per raccontarti di essersi rivisto in Blu?
Con mia grande sorpresa, sì! Persone che si sono riviste in Blu per come ho affrontato il tema dell’identità ma anche per il tema del disturbo alimentare. Un’altra invece, che mi è rimasta particolarmente impressa, mi ha scritto che l’atmosfera della storia le ha fatto tornare in mente il suo vissuto in ospedale di quando ha fatto una terapia medica.
Cosa si prova a rilasciare delle interviste e a partecipare ad eventi come il BeComics di Padova?
Mi fa sempre piacere vedere gente interessata ai miei lavori e avere la possibilità di parlarne. Durante le fiere ho l’opportunità a mia volta di vedere di persone lettrici e lettori a cui posso parlare del mio lavoro e con cui scambiare opinioni o semplicemente chiacchierare.